What Happens After a Demonstration? Approssimazioni qualitative sulla settimana appena trascorsa in Inghilterra

 

di VALERIA GRAZIANO

La manifestazione di Londra del 10 novembre è stata un evento indicativo sia per il numero di partecipanti, 52.000 persone, circa il doppio di quello previsto dagli organizzatori, sia per l’occupazione della sede del partito conservatore a Millbank e della zona di fronte al parlamento inglese da parte dell’Education Camp: una tale intensità di protesta civile non si vedeva in Inghilterra da quando la Thatcher introdusse la poll tax (la famosa “battaglia di Trafalgar” del 1990). Vorrei condividere alcune riflessioni sul come si sta evolvendo la situazione nel movimento studentesco inglese, senza pretese di catturare tutte le sfaccettature di una situazione in rapida evoluzione, ma concentrandomi su un paio di spunti che potrebbero essere rilevanti anche per un contesto, per molti aspetti profondamente diverso, quale quello italiano.

Sul piano delle proteste, diverse iniziative stanno mantenendo alta l’attenzione e la tensione intorno al tema dei tagli all’istruzione. Il 24 novembre è previsto un walk out day, ovvero un esodo di massa di insegnanti e studenti da tutte le scuole superiori e le università del paese. Molte università, in questo periodo, sono state occupate: il 3 novembre gli studenti hanno preso possesso di un edificio del Goldsmiths College; Manchester University è stata occupata l’11 novembre, seguita pochi giorni dopo dalla Sussex University, sgomberata oggi (19 novembre) dopo cinque giorni.  Accanto ad un rinnovato impegno a esercitare pressione sul governo per bloccare la riforma[1], i discorsi e le azioni del movimento studentesco presentano altri due poli d’interesse forte. Da un lato, si sta manifestando con forza l’esigenza di recuperare un’intelligenza collettiva circa le metodologie di contestazione e protesta dal basso. Dall’altro si sente la necessità di riflettere sul significato dell’educazione nella società di oggi. Entrambe questi filoni di riflessione contribuiscono a dare solidità alle relazioni di rete che si sono appena formate nell’urgenza immediata di contrastare la riorganizzazione delle università, e credo che saranno molto rilevanti per il divenire e la capacità di reazione della società civile in Gran Bretagna.

STAND UP FOR YOUR RIGHTS!

All’indomani della manifestazione del 10 novembre, gran parte del dibattito mediatico si è concentrato sull’occupazione a Millbank parlandone, come ci si poteva aspettare, in termini di violenza e di anarchia. I vertici nazionali delle due student unions che hanno indetto la campagna Fund Our Future si sono immediatamente dissociati dall’occupazione. Sia Aaron Porter, presidente della NUS, che Sally Hunt, segretario della UCU sono stati criticati con forza per le dichiarazioni rese in tempo di record alla stampa dove definivano i fatti di Millbank come “incidenti disdicevoli di una minoranza”.

Il dibattito mediatico che si sta svolgendo in questo momento in Inghilterra è sicuramente trito e strumentale, tuttavia è interessante porre l’accento su come questo abbia obbligato molti accademici e gruppi studenteschi a schierarsi pubblicamente e a riflettere su quelle che sono le pratiche di rivendicazione che legittime nel clima attuale. La reazione indignata e “di pancia” delle prime ore ha dato l’impulso a moltissime pratiche di autoformazione nei campus e nelle student unions, un’esigenza di presa di parola di per sé interessante perché sta allargando il dibattito oltre il nucleo degli organizzatori, per includere tantissimi studenti che hanno vissuto la Demo-lition (come è anche chiamata la protesta di mercoledì scorso) come prima esperienza politica vissuta in maniera diretta. La voglia di capire, di fare rete, di proteggersi e di diventare soggetti meno ingenui è rimasta tangibile anche nei giorni successivi.

Così per esempio il 14 novembre presso il LARC (London Action Resource Centre) è stato organizzato un Anti-Cuts Skill-Share workshop, dove sindacalisti, membri del movimento Climate Camp e attivisti hanno distribuito materiali e condiviso informazioni sui metodi e le implicazioni legali delle azioni di disobbedienza civile. Il 17 novembre la ULU (University of London Union) ha ospitato un laboratorio per imparare come “avere successo nel rendere le nostre università, e nostre città, e il nostro paese ingovernabile”. Le materie di studio includevano tecniche per occupare edifici, bloccare strade e disertare uffici con efficacia. Anche la Precarious Workers Brigade, un network di lavoratori precari nei settori dell’arte e dell’educazione, ha in programma sessioni di lavoro il 2, 3 e 4 dicembre su vari temi legati all’organizzazione dal basso, incluso un training per come parlare con i giornalisti.

Ancora più significativo è forse il fatto che di tecniche di organizzazione si stia parlando anche nei licei. Per esempio: in preparazione al walk out, un gruppo di Brighton ha scritto un documento per (e con) gli studenti delle scuole superiori, riassumendo efficacemente le devastanti riforme dello stato sociale proposte del governo, non solo riguardo all’istruzione, ma anche ai sussidi di disoccupazione, alle pensioni, agli assegni di aiuto ai più poveri. Una sessione del documento però è dedicata a dare qualche consiglio, che com’è scritto, “si può criticare o usare a piacimento”, circa le modalità di organizzazione. Le raccomandazioni di “chi è già passato attraverso lunghe e faticose lotte politiche” includono:

“Abbiate fiducia nel vostro giudizio critico. Non temete di lasciare una situazione se non siete d’accordo”. “Organizzate le riunioni in luoghi sicuri”. “Articolate le vostre posizioni attraverso il ragionamento e il dialogo, perché gli slogan alienano le persone”. “Considerate la possibilità che l’attività politica possa essere una condizione di felicità. State in guardia dai modi di agire e di discutere che vi sembrano un peso”.

La questione delle forme di organizzazione e delle tattiche per l’azione diretta sembra essere un aspetto molto rilevante per il (neonato?) movimento studentesco inglese, fatto di soggetti che si stanno (ri)scoprendo immediatamente politici a prescindere da un’intenzionalità chiara. È un fermento che rileva una presa di coscienza di studenti e ricercatori in merito alla presunta neutralità del dibattito liberal (che i media inglesi conservano come discorso legittimante, in modo molto diverso da quelli italiani). La volontà di “capirne di più” sul come “si fa” un’occupazione, per esempio, rivela un’inedita disponibilità a sporcarsi le mani con il bricolage e gli aspetti meno cool della partecipazione politica, che era impensabile fino a ieri. C’è molta entusiasmo in Inghilterra durante questa settimana, un’euforia percettibile e illogica se si pensa al futuro prossimo. Nonostante questo, c’è molta voglia di costruire delle prassi condivise e anche molta curiosità per le esperienze di generazioni precedenti, che hanno ora la responsabilità di riuscire a raccontare quello che è importante sapere, senza cedere alla lusinga della nostalgia.

PEDAGOGIE E FORME ORGANIZZATIVE

Il secondo elemento rilevabile nel clima del post-manifestazione riguarda la volontà diffusa di esplorare le alternative possibili, per quanto parziali, all’università globale., di ragionare assieme sulla forza propositiva di altre genealogie e prassi pedagogiche. Anche in questo caso vorrei descrivere brevemente alcune iniziative concrete che vanno in questa direzione. Il 13 novembre, presso il Goldsmiths College, si è svolto un incontro per ragionare di neo-cooperativismo. Sei membri di cooperative londinesi che operano in ambiti di didattica e produzione creativa hanno presentato ai partecipanti le loro esperienze. Si è discusso dell’applicabilità, senz’altro difficile, del modello cooperativo all’università e più in generale, all’educazione. Si sono esplorate varie forme di esodo e di creazione di economie alternative, una prospettiva che sta emergendo come necessità urgente per molti insegnanti in procinto di essere licenziati o cui non sarà rinnovato il contratto, ma anche per i neolaureati alla ricerca di un lavoro inesistente. Il movimento cooperativo in Inghilterra ha radici molto antiche e radicali, anche se oggi sopravvive con modulazioni meno militanti. La necessità di approfondirne la storia e la portata attuale è nata anche perché la proposta della “Big Society”, la cornice concettuale delle politiche di David Cameron,  si richiama direttamente a questa forma di autorganizzazione, distorcendone il significato. La concezione di ‘responsabilità sociale’ del partito conservatore (poi rinominata “Big Society” prima delle elezioni, visto lo scarso gradimento degli elettori) è stata per lungo tempo una formula vaga. Solo recentemente le mosse del governo ne hanno rivelando con più chiarezza i contorni. Ispirata dalle teorie di Lawrence Mead, il professore della New York University e già consulente dei Repubblicani, la Big Society è un modello di governante di destra che punta sull’iniziativa personale e l’autorganizzazione come strumenti a basso costo e come arma retorica destabilizzante per la sinistra.[2] Nel nome dell’autonomia, si chiede a chi vuole più sicurezza di prestare volontariato in polizia; a chi è disoccupato di prestare fino a trenta ore di servizio sociale a settimana; a chi vuole studiare di speculare sui propri presunti guadagni futuri. Un modello di autonomia che organizza gli spazi produttivi in maniera orizzontale là dove è utile per frammentare ulteriormente i soggetti, o per renderli più flessibili, ma che non mette minimamente in questione, anzi rafforza, le gerarchi verticali e le disuguaglianze di partenza. Ripensare l’autogestione in questo clima è dunque una preoccupazione molto sentita nel Regno Unito in questo momento.

Un’altra iniziativa singolare che vorrei segnalare riguarda la nascita di un complaint choir di studenti d’arte (si chiamano Paid not Played) che si riunisce per discutere i tagli al settore culturale e trasporre in forma di canzoni i punti d’ingiustizia contenuti nel programma governativo. Il complaint choir in realtà nasce nel 2005 come format artistico ideato da due artisti finlandesi. La formula ha avuto successo e oggi si contano circa trenta di questi gruppi nel mondo. Segnalo il complaint choir perché rappresenta bene lo spirito di molte iniziative che si stano appropriando di linguaggi, spazi e risorse del sistema artistico per costruire dei percorsi di conoscenza anomali  rispetto a quelli possibili in seno all’università. Questa tendenza non riguarda solo il contesto inglese. Per esempio, sono ben note le collaborazioni tra il museo Reina Sofia e l’Universidad Nomada in Spagna, o tra la Moderna Galerija di Ljubjiana e il centro sociale Rog, per citare le più rappresentative. Al momento in Gran Bretagna sono in molti a domandarsi se il settore artistico potrà ancora funzionare come terreno per iniziative pedagogiche e politiche non allineate. Anche il sistema artistico è sotto pesante attacco. I tagli previsti alle arti e al settore culturale sono del 25% nei prossimi quattro anni, e ovviamente anche a questo settore si chiede di organizzarsi in maniera imprenditoriale e di fare sacrifici in nome della crisi finanziaria. Inoltre, la riforma universitaria penalizza in modo particolare proprio le discipline umanistiche  e artistiche. Nick Couldry e Angela McRobbie, due professori di comunicazione e cultural studies, hanno lanciato proprio in ieri un appello per denunciare che la “morte dell’università in stile inglese” rischia di essere determinata non semplicemente dai tagli, ma dal modo in cui questi mirano a smantellare le materie che valorizzano le conoscenze critiche[3]. Infatti, la proposta contenuta nella Browne Review, non solo assegna il 49% dei fondi per la ricerca alle prime dieci università[4], ma se applicata condannerebbe a morte  di la maggior parte delle facoltà umanistiche nelle università non d’elite (non bisogna dimenticare che l’insegnamento costituiva una importantissima fonte di reddito relativamente stabile per molti creativi precari). È un segnale forte per il paese che negli anni novanta ha per primo sposato la politica delle creative industries, formula anche questa di origine statunitense, esportata nella Gran Bretagna di Blair per poi diffondersi in altri paesi europei, e adesso rapidamente smantellata. La parola d’ordine dell’innovazione ha ormai sostituito la più ampia e ambigua creatività, che aveva in qualche misura consentito al mondo delle arti di legittimare la propria esistenza in termini economici durante la fase precedente.

Per ultimo, segnalo un’iniziativa in preparazione. Un gruppo di ricercatori sta organizzando una scuola gratuita e di libero accesso in seno alla propria università, una scuola che non vuole proporsi come spazio alternativo o immediatamente antagonista, ma che cerca di appropriarsi del valore simbolico del branding accademico per metterlo a disposizione di coloro (molti) che a breve potrebbero non riuscire più a permettersi una laurea (circa £50.000 di debito per studente). La free school (cito in inglese per il doppio significato di gratuita e libera) mi sembra un esempio di un approccio politico in espansione, che non ragiona secondo la logica di dentro o fuori le istituzioni, ma che concentra la sua intelligenza sulle possibilità di praticare un hacking istituzionale, invertendo il flussi dei sistemi di gerarchizzazione e valorizzazione dell’università globale. Una prassi d’istituzione del comune che si sta evolvendo rapidamente e in maniera molto trasversale, con forme e formule puntuali per il contesto di azione e quindi spesso poco narrate nel dettaglio. Probabilmente, un’etnografia delle modalità di sottrazione che operano in questa come in altre iniziative simili fornirebbe un linguaggio molto utile per condividere, quella sì, un’etica dell’embedment radicale  e per distinguerla dalla semplice difesa del poco rimasto da difendere. Rimaniamo quindi in attesa di seguirne gli sviluppi.

In conclusione, credo che la settimana appena trascorsa in Gran Bretagna racconti di un mix di eccitazione e inquietudine. Eccitazione per la nuova percezione della dimensione comune, per le affettività e le intelligenze che ci ha fatto scoprire o riattivare. Ci si incontra tantissimo in questa settimana, per parlare e per fare: finalmente il senso d’impotenza non è sentito come fallimento personale, le azioni in preparazione non sono opera dei soliti pochi coraggiosi o pazzi. L’inquietudine invece è per i prossimi appuntamenti che scandiranno il conto alla rovescia prima del voto della riforma, e più in generale, per la responsabilità di capire quando è meglio sottrarsi, dar vita ad un esodo,  e quando invece è più importante ostinarsi a rimanere una presenza scomoda dentro a istituzioni sempre più deliranti.


[1] Gli sforzi si concentrano in particolare sul partito dei Liberal Democrats, ora parte della maggioranza, ma che in campagna elettorale si era dichiarato contro i tagli all’istruzione e all’innalzamento delle tasse per gli studenti.

[2] Per un approfondimento sul tema si veda: Anushka Asthana, Toby Helm e Paul Harris,  ‘How Britain’s new welfare state was born in the USA’, The Observer sabato 7 novembre 2010, http://www.guardian.co.uk/politics/2010/nov/07/britain-welfare-state-born-usa

[3] Nick Couldry e Angela McRobbie, ‘The Death of the University, English Style’, http://www.culturemachine.net/index.php/cm/article/view/417/429

[4] Jessica Shepherd, ‘University budget to be slashed by up to 14%’, The Guardian 18 marzo 2010, http://www.guardian.co.uk/education/2010/mar/18/university-budgets-slashed

* Valeria Graziano sta conseguendo un dottorato presso la Queen Mary University of London e partecipa alle attività del Carrot Workers Collective e del Micropolitics Research Group. valeria_graziano@yahoo.it

 

 

 

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