Usa e Germania nella crisi globale

 

di NICOLA CASALE e RAFFAELE SCIORTINO

Tra gli avvertimenti “performativi” dei soliti noti sul rischio (reale) di disfacimento della moneta unica e della stessa Ue e il delinearsi evidente di una strategia di risposta di Berlino, il dibattito a sinistra stenta a cogliere la posta in gioco. La situazione continua a essere letta a partire dagli equilibri interni e/o dalle pulsioni egemoniche della Germania sull’Europa, specularmente a quanti vedono nel divario incolmabile tra formiche nordiche e cicale mediterranee il peccato originale dell’euro.

In realtà l’eurocrisi è un passaggio, probabilmente un punto di svolta, della crisi globale che, nel deterioramento generale della situazione, sta dando luogo ad una guerra finanziaria su più livelli. Una guerra che inizia a palesare profonde fratture anche nel campo occidentale: tra dollaro e euro, tra finanziarizzazione transnazionale garantita dal potere imperiale statunitense e finanziarizzazione in salsa tedesca, tra differenti strategie di scarico dei costi e di possibile uscita dalla crisi. I risvolti geopolitici – altro elemento rimosso dal dibattito – sono importanti se solo pensiamo al détournement obamiano della primavera araba, dalla Libia alla Siria, che si affianca al riorientamento assertivo di Washington in Asia Orientale mentre è risaputo che Berlino sempre più guarda verso Russia e Cina.

In effetti l’epicentro della crisi in corso restano gli States. L’incredibile iniezione di liquidità di questi anni da parte della Federal Reserve ha evitato il fallimento di un sistema bancario zeppo di cattivi crediti, non è però stata in grado di rilanciare la ripresa produttiva e tanto meno i consumi. Con un indebitamento ancora altissimo a tutti i livelli niente ripresa, ma senza stimoli monetari e tassi a zero i guai sarebbero maggiori e la situazione sociale diverrebbe esplosiva. E’ l’impasse che la Federal Reserve e l’amministrazione Obama continuano a spostare in avanti perseverando nella strategia (!) di ripianare debito con debito e cercando di aprire al mad money “fittizio” nuovi campi. Ciò è possibile sia per la rendita geopolitica di garanti dell’ordine  internazionale sia grazie allo strumento tutt’altro che “neutro” della moneta: il dollaro permette una monetizzazione del debito scaricata, ecco il punto, sugli altri attori. Oggi la nuova bolla ha come sottostante il rigonfiamento dei debiti statali in particolare in Europa con conseguente aumento dei tassi e rischio di cortocircuito col sistema bancario, il che oltre a preludere a un nuovo giro di privatizzazioni dei servizi pubblici e del welfare dovrebbe facilitare l’acquisizione/eliminazione selettiva di banche e pezzi dell’apparato produttivo (Marchionne l’americano docet) da parte di flussi speculativi che sfruttano l’eurocrisi.

Sotto questa luce si spiega forse l’apparente paradosso che vede Washington più… “europeista” e “keynesiana” di Berlino. L’editoriale del NYT – liberal ma non certo un-american – a commento del vertice europeo del nove dicembre recita: l’austerity non va bene, bisogna stampare più moneta, la Bce deve fungere da prestatore di ultima istanza e salvare i piigs, la Ue deve diventare una vera transfer union dal centro ai paesi della periferia per stimolare la “crescita”, insomma la Germania deve fare la sua parte. (Sulle medesima posizioni anche Georg Soros!).

In realtà la Germania se accettasse questo programma – ma finora non ha mollato anche a costo della rottura con Londra – dovrebbe con il proprio bilancio garantire i debiti europei vedendo deteriorarsi la propria situazione finanziaria per evitare alla finanza internazionale “default disordinati” e perdite reali (su interessi, derivati e cds). Dietro la querelle della Bce prestatrice di ultima istanza c’è dunque uno scontro geoeconomico e geopolitico: “fare come la Fed” alle condizioni poste da Washington e Wall Street significherebbe per Berlino accettare un’ipoteca sulla produzione propria ed europea a favore di forme di prelievo finanziario sempre più rapaci, in ultima istanza accettare di sobbarcarsi gran parte di quella colossale svalorizzazione di capitale che incombe oramai inevitabile nei prossimi passaggi della crisi e che ciascun attore cerca di scaricare sugli altri, avversari e “alleati”.

Il gioco, attenzione, non è tra “speculazione” anglosassone e produzione “reale” tedesca. La finanziarizzazione, a suo modo “produttiva” in quanto condizione dello sfruttamento/espropriazione, è la forma generale che ha assunto l’accumulazione capitalistica, e tanto Obama quanto Merkel hanno in progetto politiche di lacrime e sangue. Non a caso Berlino ha salvato le proprie banche e la Bce è disposta a monetizzare indirettamente i debiti sovrani europei ma, appunto, non alle condizioni della finanza statunitense-britannica bensì a quelle che Merkel, forse anche a costo di scontare un rallentamento dell’economia tedesca, ha così sintetizzato: erst sparen, dann retten. Prima risparmiare, poi decidere se e cosa “salvare” o eventualmente uscire dall’euro.

Le implicazioni di tutto ciò per una resistenza non nazionalista e un’alternativa sistemica all’economia del debito andrebbero approfondite. Per intanto è bene non semplificare…

 

 

 

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