Se c’è un giudice a Berlino non è per me

 

di FANT PRECARIO

Lo stato nazionale si è dissolto. Di “lui” resta una macchina scarburata che domanda sacrifici, come urlava il precario Chris Farlowe tanti anni fa, probabilmente pensando a Berlinguer.

Il diritto privato (privatissimo, tanto è inattivabile dal precario) si pone, creandosi, in un’abbuffata di authority, arbitrati, mediazioni. Tutto è privato (meglio, per il caso del precario questi è deprivato anche del sogno di un giudice da adire).

La sintesi?

All’impresa la lex mercatoria, l’emissione di obbligazioni, la compiacenza dei giudici (e del legislatore) nel saccheggio delle banche (e quindi dei cittadini) e delle finanze statali (e quindi dei cittadini).

Alla singolarità precaria l’elemosina di un lavoro miserabile (come solo il lavoro sa esserlo) e la concessione di essere vivi da miserabili.

Lo stato abdica ad offrire la giustizia [anche quella formale di un tizio dietro una scrivania che ti guarda impaziente di andare a mettere i piedi sotto un tavolo perché è passata la una, di fornire retribuite prestazioni quale arbitro o consigli (anch’essi retribuiti) in convegni sulla grandezza della costituzione di De Gasperi e Togliatti].

Ai migranti il giudice di pace (che giudice non è, risolvendosi un pensionato flaccido e sudato che arrotonda i proventi INPS, non certo per comprarsi camicie decenti) ai cittadini (compagni, fratelli, partigiani, ma anche ai migranti, per par condicio) contributi unificati elevatissimi anche per ascoltare un giudice del lavoro messo lì per giustificare il comportamento dell’impresa che ti s/fotte.

Lo stato deve trattenere le proprie residue energie per distribuire manganellate, ecco quello che resta del diritto pubblico (ma anche della pandettistica).

Ce lo dicevamo da anni, osservando la crisi della giustizia, evocata soltanto per nascondere la crisi del diritto. Il diritto non serve al precario quindi per il precario non esiste.

Allora, ci raccontavano che occorrevano tempi certi, che la velocità nella decisione è un diritto costituzionale, che il processo veloce è un processo giusto (culto della velocità saccheggiato dal futurismo dalemiano o riduzione del giudizio a scheletro formale ignorante la teoria dell’azione?), che perdere qualche garanzia processuale (chennesò: eliminiamo un grado di giudizio, dichiariamo inammissibile un processo perché il motivo è male formulato, subordiniamo la decisione a filtri e imboscate) era l’unica via per avere finalmente “giustizia”.

Ma in questo racconto, la giustizia dello stato (l’applicazione da parte dello stato della legge dello stato e la punizione da parte dello stato di chi ne aveva violato i precetti) restava inviolabile presidio, nessuno osava metterlo in dubbio.

Finalmente, anche lo schermo della finzione e la necessità per il capitale di dimostrare una qualche dignità sono venuti meno.

La commissione europea afferma da tempo che la giustizia “privata” (meglio dei privati tra privati; magari si tendesse alla ripresa del duello quale pratica o trovasse posto tra le fonti del diritto il principio di Rocky secondo cui il mio ring è la strada) è “talvolta” (si noti la ridicolizzante cautela) migliore di quella offerta dallo stato.

Il presidente della Corte della Cassazione, nella sua relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2011, ha dichiarata raggiunta la consapevolezza che la giurisdizione è una risorsa limitata, delicata, costosa e preziosa, e perciò da non sprecare disperdendola in mille rivoli sul territorio o impegnandola a tutela indiscriminata e inefficace di una miriade di beni, mentre invece va riservata per meglio garantire beni fondamentali, affidando altri legittimi interessi a valide e diverse alternative di tutela.

La giustizia come il privè dell’Hollywood. Basta con i Tony Manero del diritto. Devi conoscere il buttafuori come al Billionaire, diversamente non balli.

Dalla corona di Federico di Prussia alla giurisidizionalizzazione di Corona (Fabrizio).

E poi quali sono i beni fondamentali? E quali le valide alternative?

Ci sarebbe da ridere.

Potremmo, invece, ricordare il bel tempo andato, la concertazione, Scalfaro e Scalfari, i padri costituenti, metterci la felpa della Fiom (dimentichi di malori attivi e calcinacci).

Oppure invocare, come ieri la Stampa, “sentenze sagge”.

Così non è.

Se eravamo belli avremmo fatto di fisso i modelli,
ma siamo brutti, ci resta solo di fare i farabutti
(Club Dogo).

Prendiamo quindi sul serio il signore togato e ragioniamo sul perché la individuazione della giurisdizione quale tutela indiscriminata non è soltanto offensiva ma dimostrativa del fatto che la giustizia non è cosa per precari e che il diritto per il precario non esiste.

In attesa di uno statuto dei precari che coaguli le tensioni di un nuovo autunno caldo lungi dall’arrivare, non ci resta che prendere alla lettera la Suprema Corte e ricordare al prestigioso consesso che l’unico bene fondamentale per il precario è il proprio benessere.

Il benessere precario è diritto sacro e inviolabile e il fatto che non sia riconosciuto da alcuna legislazione non lo rende meno urgente e tutelabile.

E’ la vita precaria che viene dispersa in mille rivoli cui il capitale si abbevera, anche grazie alla perdita di significato del diritto, della legge e della giustizia.

Occorre affermare con forza il diritto all’esistenza del precario contro l’ordine esistente che si rivela ogni giorno più atroce.

E’ necessario prendere atto che alcuna garanzia persiste nell’ordinamento attuale, che ogni tutela è preclusa: non perché non la si voglia porre (i giudici sono poi brave persone), ma perché il capitale è incommensurabile alla moltitudine e non ne comprende (per fortuna, altrimenti la metterebbe a bilancio) lo spiegarsi, molteplice e differente ma dipanantesi, comunque, in senso oppositivo.

È doveroso, perlomeno, cominciare a pensare ad un diritto precario, procedendo dal riconoscimento di una rendita di esistenza (degna e libera dal lavoro), dall’appropriazione alla fonte, immediatamente e senza intermediazioni, della ricchezza prodotta dalla finanziarizzazione della singolarità.

Il precario deve dettare il proprio rating, che è tripla A di vita e produzione.

In conclusione.

Noi siam nati chissà quando
chissà dove
allevati dalla pubblica carità
senza padre senza madre
senza un nome
e noi viviam come gli uccelli in libertà.
Figli di nessuno
per i boschi noi viviam
ci disprezza ognuno
perché laceri noi siam
ma se c’è qualcuno
che ci sappia ben guidar – e ben guidar
Figli di nessuno
anche il digiuno saprem lottar.

 

 

 

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