Que se vayan todos: le lotte oltre il Ddl Gelmini

 

di SANDRO MEZZADRA e GIGI ROGGERO

La più divertente delle molte barzellette raccontate da Mariastella Gelmini è quella secondo cui gli studenti che manifestano contro la sua riforma difendono l’Università dei baroni. De te fabula narratur: la “ministra per caso”, come ha scritto su Repubblica Curzio Maltese, non deve infatti essersi accorta del fatto che l’unica componente del mondo universitario che appoggia con convinzione la sua riforma è la CRUI, l’ormai esausto baluardo del baronato italiano. O forse i suoi arguti consiglieri non hanno ritenuto di doverla informare che uno dei punti forti della riforma è proprio il rafforzamento del potere dei baroni. Non solo i concorsi sono interamente consegnati ai professori di “prima fascia”, con l’eliminazione degli altri ruoli universitari (professori di “seconda fascia” e ricercatori) da tutte le commissioni: quel che più conta è che il blocco tendenziale proprio dei concorsi per l’accesso al ruolo di professore di prima fascia, coincidendo con un gran numero di pensionamenti, riduce drasticamente il numero dei baroni potenziali (è giusto ricordare che per essere baroni è necessario essere professori di prima fascia, ma non tutti questi ultimi accettano il ruolo di baroni). E dunque ne aumenta esponenzialmente il potere pro capite, configurando l’esistenza di una cricca saldamente al comando dell’università italiana. Dev’essere forse a causa di questa confusione che la ministra ha finito per votare contro se stessa.

Il problema è più generale, del resto. Coerentemente con un processo di ormai lungo periodo, la riforma Gelmini non punta a trasformare l’università in una “azienda” (c’è bisogno di dirlo? L’università azienda ci fa schifo, ma è un banale dato di fatto che è governata da logiche opposte rispetto a quelle baronali). Introduce principi di management neoliberale – o almeno le retoriche di quei principi – senza toccare le strutture di potere della vecchia università “pubblica”, prefigurando – con la violenza dei tagli e dell’azzeramento dei finanziamenti – un orribile mostro, un ibrido costruito shakerando quanto di peggio c’è nei due modelli dell’università azienda di stampo anglosassone e dell’università pubblica in salsa italiota. Davvero non si tratta di difendere alcunché, da questo punto di vista! Si tratta piuttosto di liquidare la Gelmini per aprire una nuova fase, una fase costituente.

Da questo punto di vista la battaglia contro il Ddl è ovviamente un punto di avvio fondamentale. Innanzitutto, perché è uno spazio di soggettivazione per migliaia di studenti e precari che, in questi giorni, stanno occupando scuole e università, piazze e monumenti. In secondo luogo, è un’indicazione politica importante: non solo il conflitto è necessario, ma la partita nella crisi è aperta. Per questo motivo, come già era successo due anni fa con quello che fu il movimento dell’Onda, le lotte sull’università hanno una potenza di generalizzazione sociale e catalizzano solidarietà: non in quanto si tratta di giovani allegri e simpatici, ma perché parlano di una condizione comune, quella del declassamento e della precarietà permanente. Chissà se in questi giorni il ministro non per caso, Tremonti, quello che ha veramente in mano le forbici di scuola e università, si è accorto che con la cultura si mangia, e molto male tra l’altro. In terzo luogo, le lotte alludono al problema della paura: non quella che non bisogna avere, ma quella che bisogna fare.

E tuttavia, la battaglia contro il Ddl non esaurisce certo il problema della vittoria. L’eventuale ritiro, infatti, non ci consegnerebbe un’università diversa da quella, indifendibile, che il Ddl vuole non cambiare, bensì consolidare nel suo processo di dismissione. Sulla mancanza di alternative alle politiche sull’istruzione del governo Berlusconi, siano esse quelle che possono venire fuori da un 25 luglio finiano o dal non pervenuto Pd, è meglio non indugiare per rispetto dell’intelligenza. Gelmini-Tremonti è la prosecuzione di Berlinguer con altri mezzi. Senza dimenticare che questa partita va giocata sul piano transnazionale: troppo poco ci si è interrogati sulla mancata conquista di uno spazio europeo come uno dei punti di blocco dell’Onda. L’esplosione degli studenti inglesi e irlandesi, così come le lotte degli ultimi anni in Francia, in Grecia o in Austria offrono l’occasione per costruire organizzativamente questo spazio.

Insomma: la lotta contro il Ddl non può essere il ritorno allo status quo ante, perché è esattamente quello status quo ante ciò che costituisce il nostro primo nemico, ciò che determina le specifiche forme di subordinazione e sfruttamento di studenti e precari nell’università, ciò contro cui i movimenti si sono battuti dal Sessantotto in avanti. Allora, il problema politico è come trasformare la difesa dell’università pubblica in apertura di una fase costituente. Questa è la guerra da vincere. Gli embrioni già ci sono, sparsi nei percorsi di autoformazione, nell’allusione all’autoriforma, nella tensione soggettiva all’autogestione dei percorsi di studio, di ricerca e di produzione dei saperi. Tutto ciò è condizione necessaria, ma non sufficiente. Ora è lo stesso incalzare dei movimenti in giro per l’Europa e per il mondo ad alzare la posta in palio: bisogna iniziare a porre le questioni del potere nei dipartimenti e dell’autogoverno dell’università – cioè di una nuova università – da parte di studenti, precari, ricercatori e docenti che prendono posizione contro il ritorno all’autogoverno feudale in salsa aziendalista.

Concretamente, iniziamo col dire da martedì: rettori, presidi e tutti coloro che si sono schierati con il Ddl Gelimini, che ne sono stati complici o, in questi anni, si sono compromessi con le politiche – pubbliche e private – di dismissione dell’università devono dimettersi. Nei giorni scorsi lo striscione di apertura di un corteo a Torino, echeggiando l’insurrezione argentina nella crisi del 2001, tracciava la linea: “Que se vayan todos!“. Non c’è altro da aggiungere. C’è molto da fare.

 

 

 

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