Pope Gapon e la troika. Nota post elettorale.

 

di MARCO ASSENNATO

Sono d’accordo: non facciamo premesse, non mettiamo in guardia dai pericoli, non perdiamoci nelle precisazioni. Il dato di fondo del voto italiano è che si apre una situazione istituzionale ingovernabile, secondo la grammatica più che logora di ciò che resta del costituzionalismo italiano – cioé per gli appassionati di fantasmi ‘dello spirito del ‘48’. È in sintesi una situazione critica: manifesta la crisi, per chi ancora non l’avesse vista, del sistema di rappresentanza e governo nazionale. In ciò: nulla di negativo, per carità. E nulla di necessariamente positivo, aggiungo io. Anzi: questa strana ‘cosa’ andrebbe guardata fuori dalla tentazione di affibiargli il segno “più” o il segno “meno”. Dato che ‘come’ si sia prodotta mi pare chiaro – basta compulsare anche distrattamente una qualsiasi delle centinaia di pagine scritte cum grano salis negli ultimi vent’anni da coloro che si sono occupati di teoria politica, di conflitto e di movimento per ricostruire il ‘come’ di questa ‘crisi della democrazia dello stato-nazione’. Quello su cui ci si dovrebbe chiarire le idee è – a me così pare, o comunque a me questo interessa – piuttosto il ‘chi’. Non riesco a togliermi di testa che la politica sia un fatto di soggettività agenti. Sempre.

E dato che stiamo discutendo di quello che capita nella sfera esangue della rappresentanza nazionale, in questo caso il ‘chi’ che cerco devo trovarlo tra le esangui figurine che su quel terreno competono. Certo: a nulla vale la spiegazione senza riportarne le forme ai contenuti, alle composizioni produttive. La gravità è ancora legge, nel mondo, ed ha giudici più seri di Ingroia a difenderne le ragioni. Per fortuna. Ma adesso mi interessa questo ‘chi’ spettrale: almeno sin quando è di istituzioni che si deve parlare (dunque di una parte, la meno sostanziale, di ciò che chiamiamo ‘politica’). Chi ha prodotto l’ingovernabilità del teatrino autonomo della politica? Quale iniziativa elettorale? La prima risposta: l’ha prodotta il vero vincitore della competizione, cioé Grillo. E lì giù ad analizzarne la composizione sociale e di classe e cercarne le aperture. Io invece credo di no. Il centro non è Grillo. Nelle competizioni elettorali conta chi vince. Ma questo ‘vincere’ ha assunto un  tratto paradossale. Vince chi riesce a non perdere. Perde chi riesce a non vincere. Le patetiche, ‘fuori secolo’, ombre del centrosinistra strapaesano di Bettola hanno perso. Chi ha giocato a produrre un risultato ingovernabile, non perdendo, ha vinto. Più che Grillo a me pare che il protagonista di questo risultato, l’unico che ne trae la forza per trattare su qualcosa, sia Silvio Berlusconi. L’unico che – non certo di strategia – ma almeno di tattica ne capisce qualcosa. E mi pare che sia riuscito a mettere a segno un ennesimo colpo nella inesausta battaglia contro le figurine da vecchio Pci strapaesano del centro-sinistra.

Facciamo un salto indietro. Mi pare che le elezioni di domenica e lunedì vadano lette come primo risultato di ciò che, sul piano istituzionale, è accaduto quando Giorgio Napolitano ha deciso di defenestrare il governo di centrodestra, incompatibile per manifesta incapacità con i desiderata della tecnocrazia europea. Per mesi abbiamo letto quintali di corbellerie sul ‘colpo di genio’ di questo ‘vecchio uomo di stato’ che sarebbe riuscito, finalmente, a scalzare di sella il ba-bau rappresentato dal Cavaliere. Che genio! Al posto di sciogliere le camere (visto che nessun voto di fiducia è mai mancato al Cavaliere) e procedere ad elezioni alle quali la destra avrebbe raccolto percentuali da ‘Rivoluzione Civile’ (e Grillo forse più o meno le stesse di adesso, forse qualcosa di più), questo ‘geniale vecchio statista’ ha aperto la stagione tecnica dell’austerità. Berlusconi ha partecipato allora attivamente a quel passaggio, ed ha poi sostenuto l’esperienza tecnica con estrema lealtà – almeno pari alla lealtà del Pd, mettiamola così. Inabissatosi ha poi dettato i tempi della consultazione elettorale: tempi coerenti con l’andamento delle sue privatissime trattative. Infine è tornato, come un giaguaro. Per vincere le elezioni. Cioé sopratutto non perderle e fare in modo che non le vincesse – ovvero che le perdesse, il ragazzo di Bettola. Grillo in questa commedia di fantasmi è parte dello scenario, calcolato, non una novità: ha già vinto alle amministrative e mostrato la sua forza elettorale. Punto.

E quindi? Quindi questa ingovernabilità apre a due scenari possibili. Il primo è quello che sta tentando lo sconfitto Bersani: il modello siciliano, un governo fondato su alcuni punti di programma che tenga fuori il PDL e la Lega. Si aprisse questo scenario potremmo e dovremmo certo lavorare sul ‘viva Pope Gapon!’. Ma tre piccolissimi intralci si intravvedono: il primo, per formare un governo, sui provvedimenti del quale poi si possono trovare maggioranze punto per punto, è previsto un voto di fiducia, e Grillo dice che fiducia non ne vota a nessuno. Forse gli appassionati difensori della Costituzione del ’48 hanno ancora qualche ora per fare al comico Genovese e alle sue centinaia di eletti ed elette un corso accelerato di diritto costituzionale e ovviare a questo problemino – che comunque porta con sé un carico simbolico e di propaganda non indifferente (sopratutto per chi sul simbolico e sulla propaganda ci marcia). Allo scopo, suggerirei di servirsi della saggezza novecentesca del neosenatore Mario Tronti. Il secondo: alla Camera dei deputati c’è un buon terzo dei banchi occupati da signori e signore (si fa per dire) guidati dal Cavaliere, al Senato questi sono persino qualcuno in più di quelli guidati dall’erede di Brlinguer – e a me sfugge come si possa continuare a fare i conti senza l’oste, senza colui che ha tenuto il banco delle istituzioni italiane negli ultimi vent’anni, come se questi non avesse iniziativa. Il terzo: il potere reale che ha tolto di sella, per un poco, quell’oste, o almeno che ne ha ridotto considerevolmente il ruolo è la tecnocrazia europea (diciamo così, per capirci). Qualcuno mi spiega perché mai si dovrebbe risucire nella formazione (e nella durata) di un centrosinistra a cinque stelle per di più senza il parere della tecnocrazia?

Stiamo a vedere, basta aspettare qualche giorno. Ma, corso di diritto costituzionale a parte, a me sembra che la soluzione più ‘logica’ sia altrove. Dal punto di vista di coloro che hanno sin qui governato le tribolazioni istituzionali (vi ricordate Papandreu? E le elezioni greche con Syriza primo partito?) mi pare che ci sia una soluzione possibile: un governissimo (senza stelle, certo, ma stellare!) che si impegni certo su punti programmatici e su una durata parziale: quelli decisi altrove. Ancora una soluzione ‘tecnica’, una Grosse Koalition, ma con un altro funzionario al posto di Monti. E credo anche che nella esangue sfera istituzionale italiana, falliti i rigurgiti del centrosinistra orfano di vittorie, ci sia sempre quel buon terzo del parlamento che potrebbe offrirsi come ‘responsabilissimo’ promotore di questa iniziativa, fatta, sia chiaro, ‘per il bene dell’Italia’, una volta che il teatrino post-elettorale si sia calmato. Le conseguenze sono facili da intuire, inutili da sottolineare. Sommessamente aggiungo: nelle regole istituzionali colui o colei che si offre come ‘responsabile e garante’ dell’unità politica del paese ha un ruolo. Oggi occupato da Giorgio Napolitano. Che però tra poco dovrà essere sostituito. Al più ‘responsabile’ toccherà prenderne il posto, o almeno, aspirarvi leggitimamente. Punto.

Allora oltre al berlinguerismo salterebbe anche l’illusione nostalgica del sistema della rappresentanza. Il che, ancora una volta, in sé non é necessariamente un male né automaticamente un bene. É una contraddizione sulla quale l’iniziativa di movimento dovrà eventualmente saper giocare le sue carte. Non si tratterebbe più di gridare viva al Pope! Ma di riaprire la partita fuori dal livello della rappresentanza. Stavolta con una qualche chiarezza in più, o con meno alibi per avversari e nemici. Mi pare.

 

 

 

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