Operai. Storie di «socialismo alla cinese». Web, attivismo nuovo, repressione vecchia

 

di ANGELA PASCUCCI

A Pechino gira una battuta: «Il socialismo è sparito, sono rimaste le caratteristiche cinesi». La vox populi ha già colto le contraddizioni del modello, anche perché mordono la sua pelle. I fermenti tuttavia si stanno propagando.

Il China Workers Research, ad esempio, un sito internet con base a Pechino che raccoglie analisi, articoli, rapporti, contributi di accademici, studiosi e studenti sulla questione operaia in Cina. Yan Yuanzhang, ricercatore che incontriamo a Pechino in una casa prestata per l’occasione, ritiene che il sito sia troppo teorico e poco utile agli operai. Lui, che pure ci collabora, resta legato all’esperienza che l’ha preceduto, la «Rete per gli operai cinesi». A riprova dell’importanza assunta da Internet in Cina, anche questo era un sito lanciato, non a caso, il primo maggio del 2005 da un gruppo di volontari, tra loro amici, che raccoglieva le petizioni, i reclami, le proteste ignorate dalle autorità insieme a storie di lotta e di resistenza. Si aprirono le cataratte, ricorda Yan. Molte denunce riguardavano episodi di corruzione nelle privatizzazioni delle imprese di stato. Tanto che in alcune province i governanti locali pensarono che il sito fosse stato aperto dal governo centrale. Furono chiusi d’autorità nel febbraio del 2006. Gli dissero che stavano facendo perdere la faccia al partito. Quel giorno stesso Yan scrisse un editoriale «Addio, compagni lavoratori», promettendo di tornare. Hanno comunque venduto cara la pelle e, a ridosso della sessione annuale del Parlamento del popolo, che si tiene a marzo, denunciarono alla stampa straniera la chiusura del sito, affermando che quello era il Congresso dei capitalisti e non del popolo.

Il sito che è tornato in rete, però, non soddisfa Yan Yuanzhang perché non è più un luogo di movimento sociale ma solo di riflessione. Così preferisce lavorare al rafforzamento di una rete di volontari composta da studenti e intellettuali che fanno inchiesta, informale, nelle fabbriche statali nazionali, attivando gli stessi operai. Come la Sacom di Hong Kong. Preferiscono lavorare con le imprese pubbliche nazionali, spiega Yan, perché lì c’è ancora una classe operaia strutturata, più facile da sensibilizzare. Da lì vengono soprattutto denunce di corruzione. Le problematiche delle imprese private riguardano invece lo sfruttamento brutale di mingong, i migranti che, a suo dire, sono refrattari all sensibilizzazione perché disuniti e all’inseguimento del salario, non di un progetto politico.

Anche se non è illegale, è un lavoro rischioso quello che fanno perché, non esita a dire, «il principale nemico della classe operaia è il governo» che teme particolarmente un’alleanza fra intellettuali, studenti e lavoratori. Quanto a lui, la polizia lo controlla e lo convoca almeno quattro volte l’anno quando ci sono ricorrenze canoniche. Ogni tanto gli mettono spie alle calcagna.

La condizione della classe operaia, dice, è come il lavoro ad una macina, il cui perno è fuori del controllo, e della consapevolezza, di chi la fa girare. Solo chi è fuori dal meccanismo può aiutare a spezzarlo. Ma è ancora molto difficile. Anche se, a suo dire, la coscienza politica è decisamente cresciuta rispetto a dieci anni fa: a causa del peggioramento delle condizioni di vita, che non assicurano più neppure la sopravvivenza, ma anche per il fatto che la storia cinese moderna è legata al socialismo. Il capitalismo dominante, che tratta gli esseri umani come bestie, rinfocola la voglia di cambiamento.

La retorica sul sistema finto-socialista che investe la gente attraverso i media tampona le contraddizioni. Ma fino a quando? Yan definisce «delirante» la cultura di Deng che si è rivolto agli operai per dire: voi siete la classe avanzata, il nerbo della nazione, voi dovete dare un contributo decisivo alla riforma, sacrificandovi per il paese. Il contributo consisteva nella rinuncia ai diritti e ai benefici di una volta e nella disponibilità a farsi sfruttare. L’epoca d’oro di Deng però è agli sgoccioli, argomenta Yan, che abbozza uno schema della classe operaia cinese per far capire quanto fluido, e infiammabile, sia questo insieme.

La divisione principale è tra vecchi e giovani. Dei primi, non meno di 150 milioni di lavoratori si dividono tra imprese di stato, piuttosto stabili, e nuove realtà produttive nate dalla riforma, dove il modello salariale è flessibile e la pensione incerta. La prima fascia ha forte coscienza politica ma sta bene, la seconda crede nelle riforme ma comincia ad essere insoddisfatta. Poi ci sono 40 milioni fra disoccupati, sotto occupati e precari. Vivono in una giungla, senza contratti, senza futuro, senza pensione, E’ il gruppo più reattivo, quello degli incidenti di massa e delle rivolte. Ma il governo non lo teme perché è fatto di grani di sabbia dispersi, quindi pensa che non potrà mai organizzarsi. Rimangono 20/30 milioni di pensionati, vera e propria memoria storica di un eventuale movimento operaio.

I giovani si spartiscono tra mingong e studenti. I primi sono 200 milioni di migranti ipersfruttati ma non sradicati, avendo ancora la terra a cui tornare. Un gruppo sociale il cui mutamento è appena iniziato e che solo ora comincia a riflettere su stesso. Il nuovo proletariato però, afferma Yan, saranno gli studenti che ancora non hanno capito cosa li aspetta, dopo l’università. Secondo il ricercatore non riusciranno a trovare un lavoro all’altezza dei loro studi e delle loro aspettative. Resteranno dunque delusi. Un futuro migliore, argomenta Yan sulla base di questa analisi, sarà possibile se ci sarà una cerniera tra la memoria e la coscienza dei vecchi e la delusione dei giovani. La situazione mondiale, con la crisi economica e le guerre, farà il resto. Ma socialismo, comunismo, non sono termini screditati? Non è vero, argomenta Yan. Dal basso si continua a chiederli. La gente continua talmente a crederci, sostiene, che il Partito non può abbandonarli e per rassicurare i capitalisti deve aggiungere la dizione «con caratteristiche cinesi». Ma il socialismo resta quello che era. E prima o poi qualcuno lo reclamerà.

2- Fine. La prima puntata è stata pubblicata il 16 luglio

* da IL MANIFESTO del 18 Luglio 2008

 

 

 

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