di ANTONIO ALIA
La lettera di Saviano, sulla manifestazione del 14 dicembre indirizzata agli studenti ha innescato una serie di reazioni che ben rendono conto della vivacità di questo movimento, della sua sicurezza nell’affrontare anche un mostro sacro (o homo sacer?) come l’autore di Gomorra. I racconti e le considerazioni di chi ha partecipato a quella giornata di mobilitazione ci pare dimostrino che i movimenti stanno sviluppando la capacità di raccontarsi con proprie parole, immagini e suoni, in autonomia. E’ grazie a ciò che quella lettera è stata -efficacemente- respinta al mittente.
Ora, però, ci pare opportuno fare un passo ulteriore: riflettere sul ruolo dell’intellettuale.
Il vero problema -a nostro parere- non è il giudizio negativo di Saviano su quella giornata – lo ripetiamo – ampiamente disinnescato (ci sembrano molto più gravi e pericolose le sue prese di posizione sulla questione israelo-palestinese, che al contrario non hanno ricevuto un’adeguata risposta) ma è a monte: il fatto che ci sia ancora qualcuno che si arroghi il diritto di parlare per gli altri, di vestire i panni dell’intellettuale engagé novecentesco.
Questo secondo decennio del nuovo secolo è iniziato in Italia con la rivolta di Rosarno e, passando per Melfi e Pomigliano, Terzigno, L’Aquila, i migranti in sciopero a Castelvolturno e quelli sulla gru a Brescia, si è concluso con la rivolta di Piazza del Popolo.
Sono prese di parola forti di chi parla solo per sé stesso, in nome della propria dignità.
Siamo convinti che queste figure sociali abbiano la capacità di autonarrarsi e di produrre discorso.
I movimenti non hanno bisogno di intellettuali-simbolo-tuttologi, ma di saperi critici specifici, che abbiano la capacità di farsi ridefinire dalle lotte.
E’ ciò che definiamo conricerca: scambio virtuoso tra strumenti di analisi e saperi emersi e accumulati nella conflittualità sociale.
Per Foucault “quel che l’intellettuale può fare è dare strumenti di analisi” non certo “svolgere il ruolo di colui che dà consigli”. Come ebbe a dire Deleuze, Foucault “ci ha insegnato l’indegnità di parlare per gli altri” (per inciso, siamo convinti che sia un autore che Saviano conosce bene, avendo sempre ritenuto Gomorra un libro profondamente foucaultiano nel cogliere i dispositivi propri del diagramma di potere del Sistema camorristico, che riporta in maniera impareggiabile la vita degli uomini infami, il brulichio delle loro voci e che ci di-mostra i caratteri tutti capitalistici, di più, la governamentalità liberale immanente anche alla cosiddetta economia illegale).
Tra le cose più interessanti accadute in queste settimane nelle assemblee, non c’è stato solo ciò che veniva detto, ma anche qualcosa che non è stato detto. Non abbiamo sentito frasi come il problema è che non ci sono più gli intellettuali di una volta, nessuno si è sognato di dire bisogna comunicare con la società. Gli intellettuali siamo noi. La società siamo noi.
Secondo Gramsci “tutti gli uomini sono intellettuali, ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali”. Bene, siamo convinti che oggi -date le modificazioni della composizione tecnica del lavoro- la seconda parte della frase diventi opinabile. Ferma restando la gerarchizzazione interna alla forza lavoro, le soggettività dimostrano tutte indistintamente la capacità di pensarsi da sé, nella misura in cui quotidianamente mettono in gioco nel lavoro le proprie facoltà comunicative. Quando il linguaggio entra nella sfera della produzione, la capacità di narrare il mondo e chi lo abita, di definirne il senso e la direzione non è più attribuibile – come accadeva nel fordismo – alla sfera separata della Rappresentanza o al racconto degli Intellettuali, perché è al contrario diffusa nel corpo della società, è molteplice. Una capacità, pertanto, irriducibile a qualsivoglia moderno, postmoderno (o tardoantico) Principe.
Rosarno, Pomigliano, Terzigno, Roma ci parlano di nobiltà di strada: una grande narrazione, capace di intrecciare queste storie, significa costruire comune. La sfida per gli anni a venire.