Non illudiamoci, la costituzione è dietro le spalle

 

di LUCA NIVARRA

Ogni tanto, disseppellita da un suo tardo e interessato estimatore, ricompare sulla scena la vecchia e gloriosa Carta del ’48, per il resto consegnata ad una condizione semivegetativa, così come si conviene a chi, avendo conosciuto stagioni luminose, trascorre le sue giornate nella penombra della vita o negli anfratti della storia. Come, sobbalzeranno indignate sulle loro poltrone le sue irriducibili vestali che, specie a sinistra, sono ancora legioni?

La nostra costituzione, nata dalla resistenza, base civile e presupposto giuridico di una rivoluzione promessa e ancora in larga parte incompiuta, trattata alla stregua di un reperto archeologico? Eppure le cose stanno proprio così. La Costituzione e, più in generale, il costituzionalismo democratico sono ormai alle nostre spalle e nulla, proprio nulla, potrà riportare indietro le lancette dell’orologio e restituirci ciò che aveva fatto di un semplice documento normativo, per quanto collocato al vertice del «sistema delle fonti», un potente fattore di innovazione giuridica e sociale. Perché è proprio questo il punto: alla Costituzione è successo quello che era già successo al codice civile. Quest’ultimo aveva permeato di sé un’epoca storica, l’Ottocento, consacrando la nuova egemonia borghese. La proprietà fondiaria, il contratto individuale, il rapporto di lavoro tra «eguali»: insomma, tutti gli istituti fondamentali del diritto civile, che poi erano anche i capisaldi giuridici del capitalismo, facevano del codice la vera carta costituzionale del nuovo ordine. Ma poi tutto cambia: il Novecento, tra fallimenti del mercato e regolazione del conflitto, è il secolo della «decodificazione»: gli equilibri del sistema giuridico si spostano verso l’alto (le Costituzioni «lunghe», luoghi del compromesso e del bilanciamento, ma anche dell’affermazione della potente razionalità del capitalismo fordista: che senso avrebbe avuto una norma come quella dell’art. 36 sulla retribuzione del lavoratore se non fosse stato disponibile uno strumento come il contratto collettivo?), e verso il basso (la legislazione speciale che prova ad articolare un discorso normativo all’altezza del disegno costituzionale).

Naturalmente, nella pratica quotidiana, il codice civile occupa ancora un grande spazio: basta sfogliare i repertori di giurisprudenza. Ma, salvo qualche inguaribile nostalgico, nessuno guarda più ad esso come al punto archimedeo dell’ordinamento, alla fonte che ne scolpisce e fissa la fisionomia. Ora, alla Costituzione è accaduta esattamente la stessa cosa. Certo, ogni anno la Consulta sforna centinaia di sentenze, alcune delle quali anche di grande rilievo politico (basti pensare alla n. 199/2012, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che aveva reintrodotto la disciplina dei servizi pubblici locali abrogata dal referendum): ma chi, dotato di buon senso, può davvero pensare che la Costituzione rivesta ancora oggi un significato emancipatorio, ovvero sia in grado di legittimare pratiche di conflitto sociale all’altezza dell’attuale fase dello sviluppo capitalistico? Sono venuti meno tutti i presupposti della razionalità costituzionale: istituzionali (basti pensare che il fondamento normativo dell’adesione all’odierna UE è l’art.11, norma «sovranista» per definizione); politici (i partiti di massa e i sindacati di classe evaporati come nebbia al sole e sostituiti da oligarchie dedite solo alla riproduzione di se stesse), materiali (il lavoro fordista soppiantato da una nuova ed inedita composizione della forza lavoro): e questo sarebbe di per sé sufficiente, senza dovere tirare in ballo le continue manomissioni a cui la Carta è stata sottoposta nel corso degli ultimi anni ad opera, in primo luogo, dei postcomunisti e dei postdemocristiani (dalla riforma del Titolo V all’introduzione del pareggio di bilancio, per non parlare poi dei meccanismi della rappresentanza, i quali hanno un rango sostanzialmente costituzionale, e che sono stati continuamente stravolti in senso maggioritario).

Il richiamo alla Costituzione, nel tempo presente, quando non è strumentale, è da anima bella. Siamo entrati da tempo in una fase postcostituzionale e, dunque, costituente: il primato del diritto europeo che, all’inizio, si presentava come un’importante ma innocua innovazione normativa, si è tradotto, sotto la spinta della globalizzazione liberista, in un fattore di trasformazione dell’ordinamento, relegando le costituzioni nazionali (nella loro dimensione formale e in quella di diritto vivente) ad un ruolo del tutto marginale. Solo partendo da questa consapevolezza (che poi è quella che ha animato le lotte e i movimenti per il «comune», non a caso categoria del tutto estranea al lessico costituzionale) sarà possibile, per la sinistra, essere all’altezza del tempo presente: lasciamo la nostra vecchia Costituzione a toghe e tribunali, oltre che a qualche ben retribuito guitto televisivo, e guardiamo avanti, all’Europa dei movimenti e del comune.

* Pubblicato su “il manifesto”, 10 gennaio 2013.

 

 

 

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