Luoghi migranti
di FELICE MOMETTI
Il motel, la piazza, la gru. Tre luoghi diversi, tre diverse composizioni sociali e di classe dei migranti che hanno segnato le lotte a Brescia negli ultimi 20 anni. Spesso le relazioni tra le forme del conflitto e i luoghi in cui avvengono sfuggono a un primo sguardo. Altrettanto spesso, nel caso delle lotte dei migranti, solo la ricostruzione dei nessi tra i luoghi del conflitto e una specifica composizione di classe fatta di comportamenti, organizzazione, condizione lavorativa e pratiche sociali può aiutare a sollevare gli occhi oltre la linea dell’orizzonte.
Il motel
Il Motel Agip, situato in quartiere periferico, è occupato nell’autunno del 1990 da migranti arrivati nella seconda metà degli anni ’80 – inseriti negli interstizi del sistema produttivo – che non avevano luoghi in cui vivere, dormivano nelle automobili o in edifici fatiscenti. Una condizione di sfruttamento violento, intensivo, temporaneo con la finalità di consumare velocemente il lavoro vivo migrante bloccando le possibilità della sua riproduzione. Il continuo ricambio della forza-lavoro migrante è stata la strategia messa in campo anche per inibire l’apertura di un conflitto sul versante della cittadinanza. A posteriori si può sostenere che è stato l’intero modo di produzione a funzionare come un immenso Centro di Permanenza Temporanea senza alcuna validazione giuridica o legislativa. É stata la fase costituente, come risposta difensiva, delle comunità migranti su base nazionale, delle sotto comunità come ambiti di aggregazione per provenienze regionali e condizioni sociali. Una risposta, al di fuori dei meccanismi di rappresentanza politica e sindacale, che tendeva a riproporre relazioni e gerarchie mutuate dai paesi di origine ma al tempo stesso permetteva occasioni di soggettivazione dei migranti. Un’ambivalenza che però si è progressivamente cristallizza, non generando processi di decostruzione di una composizione di classe importata.
La piazza
Bisogna aspettare l’ondata delle migrazioni della seconda metà degli anni ’90 per superare i confini di una politica di disciplinamento della forza-lavoro migrante che intanto ha avuto la sua formalizzazione con le legge Turco-Napolitano. I migranti conquistano il centro della città. L’occupazione nella primavera del 2000 per 54 giorni di piazza della Loggia con l’apertura, nell’ultima fase, di una vertenza direttamente con il Ministero dell’Interno e l’ottenimento a Brescia di 6 mila permessi di soggiorno è la fotografia di una composizione migrante che ha acquisito la consapevolezza che la propria condizione è confinata in “un provvisorio che dura”. Non c’è nulla di più duraturo di una condizione migrante permanentemente provvisoria. La doppia assenza, essere parzialmente assenti là dove si è completamente assenti – dal paese di origine – e, nello stesso tempo, non essere totalmente presenti là dove si è presenti – per le molte forme di esclusione di cui si è vittime nel paese di arrivo, analizzata da Abdelmalek Sayad, agisce in profondità investendo collettivamente i migranti nella radicalità dei comportamenti. Una doppia assenza che oltrepassa le esistenze individuali, non segue percorsi di diffusione molecolare, e si installa direttamente in uno spazio pubblico trasfigurandolo in un luogo dotato di nuovo senso. I migranti parlano alla città, alle istituzioni locali da una piazza che racchiude un alto contenuto simbolico : la piazza della strage, del Municipio, delle manifestazioni operaie e studentesche. E’ come se improvvisamente le storie personali di migranti arrivati da pochi anni, e discriminati da una sanatoria escludente, divenissero la lente di ingrandimento della condizione di tutti i migranti. Lo scontro è aspro: chiusure, sgomberi, trattative inconcludenti, logoramento. La svolta avviene nel momento in cui entra in campo lo Stato con il Ministero dell’Interno. Fino ad allora le istituzioni locali, il Comune, la Prefettura e la Questura, orientate ad una soluzione che oscillava tra l’amministrativo e il repressivo, non erano state in grado di rispondere ad una mobilitazione che eccedeva le pratiche consolidate del conflitto. La gestione assembleare dell’occupazione, la partecipazione alla lotta anche di migranti con il permesso di soggiorno, l’impegno del movimento antirazzista bresciano, la chiamata in causa delle organizzazioni sindacali senza tuttavia delegarne la rappresentanza, i comportamenti di nuovi lavoratori migranti senza permesso di soggiorno ma già inghiottiti nel vortice del lavoro temporaneo e interinale hanno provocato un corto circuito nei codici istituzionali di lettura dei conflitti sociali. In tale situazione solo la riconduzione della piena sovranità decisionale allo Stato poteva permettere di riaprire lo spazio della trattativa e della pratica degli obiettivi. L’occupazione della piazza ha prodotto la partecipazione di importanti settori migranti alle mobilitazioni di Genova contro il G8 l’anno successivo. Ma, pur con l’organizzazione di un’ itinerante “Carovana dei diritti” non si è riuscito ad estendere quella forma di lotta, tipica di piazza della Loggia, ad altre città e territori.
La gru
L’antefatto è lo sciopero dei migranti del primo marzo. I migranti, e pochi nativi, di una cinquantina di aziende bresciane scendono in sciopero aderendo all’iniziativa nata in Francia di “Un giorno senza di noi”. Il percorso che ha portato al primo marzo è stato difficile e piuttosto accidentato. I tentativi di sminuirlo, depotenziarlo sono iniziati quasi subito. Sono stati prefigurati scenari dai tratti inquietanti: divisione dei lavoratori, scioperi etnici, virtuali, da non fare subito ma tra mesi o anni. Come se ci fosse stata di fronte una classe operaia italiana (bianca?) compatta e coesa che esprimeva lotte e mobilitazioni ed era minacciata dai comportamenti dei lavoratori migranti. Oppure, ma non cambiava molto, facendo leva sull’auspicio, che progressivamente diveniva un ostacolo, della costruzione di un’idilliaca unità tra lavoratori migranti e nativi per poi mettere in capo conflitti e mobilitazioni. L’incomprensione delle potenzialità dello sciopero del primo marzo ha riguardato la quasi totalità del sindacalismo di sinistra sia di base che confederale. Gli altri sindacati o settori sindacali hanno fatto semplicemente il loro mestiere: i migranti non devono diventare soggetti sociali protagonisti del proprio destino, devono restare essenzialmente dei “fruitori di servizi” che tutt’al più fanno vertenze individuali sui luoghi di lavoro o per i diritti di cittadinanza. Un discorso analogo si potrebbe estendere a quell’associazionismo antirazzista rimasto imbrigliato in logiche solidaristiche che non vanno oltre l’evocazione astratta dei diritti e di una fantomatica integrazione che si risolve nell’adattamento, nell’assimilazione.
Invece l’importanza del primo marzo è stata l’emergere di anticipazioni, di esperienze, di aspirazioni che attraversavano la moderna composizione di classe migrante. Non si può ricomporre alcunché con operazioni aritmetiche, con mere sommatorie tra classe, genere e razza. Sono le soggettività attive del lavoro vivo contemporaneo con i loro comportamenti, spostamenti e fratture che possono aprire un nuovo spazio per ridefinire relazioni sociali e di classe.
L’occupazione della gru ha spostato e amplificato i termini della questione. Stare a 30 metri di altezza per 17 giorni su una gru può far vedere il mondo da un altro punto di vista. E sulla gru a Brescia non c’erano solo pochi migranti truffati dallo Stato e da padroni senza scrupoli con la cosiddetta sanatoria per colf e badanti. C’erano simbolicamente migliaia di storie personali e collettive fatte di sfruttamento e esclusione, centinaia di anni trascorsi in Italia nell’invisibilità sociale. Ma non c’era solo questo. C’erano anche delle contraddizioni laceranti che chiamano tutti in causa: il protagonismo politico dei migranti, le forme del conflitto, i modelli di rappresentanza.
La Lega e la destra, che governano Brescia e il paese, si sono affannate a confinare qualsiasi richiesta dei migranti in un problema di ordine pubblico, negando persino la legittimità della trattativa. Un muro fatto di razzismo, minacce, interventi repressivi con lo scopo di impedire l’apertura di un qualsiasi “spazio pubblico” in cui i migranti si potessero riconoscere. Una sorta di trincea invalicabile per contenere il possibile contagio dei comportamenti e delle forme di lotta. Un insieme di razzismo istituzionale e di coperture alla precarizzazione e allo sfruttamento del lavoro migrante per depotenziarne un protagonismo visto come un pericolo perché non segue le vie conosciute della concertazione, dello strumentale approccio ai diritti.
In una situazione bloccata, con una determinazione dei migranti sopra e sotto la gru che metteva in discussione il monopolio della decisione politica e della proiezione mediatica è intervenuto pesantemente lo Stato attraverso il Ministero dell’Interno. Il quartiere – nel centro della città con un’altissima presenza di migranti – in cui è collocato il cantiere con la gru è stato militarizzato, le comunicazioni con i migranti sulla gru interrotte, l’invio di cibo e abiti asciutti notevolmente rallentato, il presidio dei migranti e degli antirazzisti sotto la gru caricato e disperso dalla polizia. Un vero e proprio assedio per impedire che i migranti dalla gru parlassero a tutti i migranti e non solo a quelli Brescia. Probabilmente aveva ragione Sayad quando sosteneva che pensare l’immigrazione significava pensare lo stato. È lo stato che pensa se stesso pensando l’immigrazione, “perché l’immigrazione rappresenta il limite dello stato nazionale, quel limite che mostra ciò che esso è intrinsecamente, la sua verità fondamentale. Lo stato, per sua stessa natura, discrimina e così si dota preventivamente di tutti i criteri appropriati, necessari per procedere alla discriminazione, senza la quale non esiste stato nazionale”[1]. La gru rinvia ai significanti “vecchi” di classe e stato che nel contesto specifico hanno assunto significati nuovi e inediti. Ma chi erano, chi sono i migranti sopra e sotto la gru ? Giovani migranti dell’ultima migrazione, lavoratori precari metalmeccanici, del commercio, del marketing, insofferenti alle regole e alle gerarchie delle comunità di appartenenza, che non soffrono la mancanza o l’assenza del paese d’origine, che percorrono la globalizzazione capitalistica con una pluralità di storie individuali che si condensano in un’azione comune, che non vogliono essere espropriati della loro soggettività e rappresentanza.
La gru è anche una piccola costellazione poco luminosa che si vede nell’emisfero sud. Per 17 giorni si è vista chiaramente anche a Brescia. Si dice che le sue traiettorie siano imprevedibili.
[1] A. Sayad, La doppia assenza. Cortina, Milano, 2002, p. 368