La Quinta Internazionale di Giovanni Paolo II

 

di TONI NEGRI

Ripubblichiamo questo articolo apparso su “Futur Antérieur” nell’ottobre 1991, ora raccolto nel volume “Inventare il comune” (DeriveApprodi, 2012).

L’Enciclica di Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, in occasione del centenario della Rerum Novarum, non è, malgrado il richiamo alla tradizione, un messaggio sociale ma un documento politico, nel senso stretto della parola, cioè un manifesto, un’eccitazione dello spirito pubblico, un programma. Per questo è interessante commentarla. Per quello che dice e per quello che rivela. E per le riflessioni che può in noi produrre.

Giovanni Paolo II esprime innanzitutto, attraverso tutta l’enciclica, la sua profonda emozione per la rivoluzione dell’89 nei Paesi dell’Est. Egli, che pur tanto ha fatto per produrlo, resta attonito davanti all’evento. L’Europa del socialismo reale è finita, la divisione del mondo in due blocchi contrapposti e capaci di distruzione reciproca è terminata, i partiti comunisti hanno perduto l’iniziativa – definitivamente – a livello mondiale. Giovanni Paolo II trae, con un certo tremore ma con decisione, le conseguenze per la Chiesa: che cosa deve fare il Papa, che cosa debbono fare le forze cattoliche e cristiane, in un mondo che è ridiventato uno — quando cioè l’obbligazione a schierarsi contro il mondo degli infedeli si è esaurita? Chi sono oggi i «nuovi» infedeli? Che cosa può dire il cristianesimo di «positivo» quando la costrizione «negativa» alla difesa del mondo occidentale e della libertà religiosa è terminata? Che cosa può la Chiesa proporre alla società degli uomini, oggi?

L’eccezionale risposta che Giovanni Paolo II dà al quesito è: la Chiesa deve, in questa situazione, rialzare le bandiere che il movimento della classe operaia ha lasciato cadere nel fango, la Chiesa deve allearsi al movimento operaio. Chi è dunque, di conseguenza, l’infedele? Lo sono ovviamente i comunisti (questo tuttavia ha cessato di essere un pericolo) – ma lo sono soprattutto il capitalismo selvaggio e il mercato mondiale imperialista. La Chiesa è l’alleato dei poveri nei Paesi capitalisti, è l’alleato degli Stati nei Paesi che escono dal socialismo, è l’alleato delle masse nei Paesi del Terzo Mondo. Nell’unificazione mondiale del mercato economico e politico, Giovanni Paolo II identifica la possibilità per la Chiesa di riprendere, la sua vocazione medievale. Essa è ora infatti, sola e potente davanti agli Stati, davanti all’Impero. Essa è la sola rappresentante dei poveri.

Il programma che Giovanni Paolo II propone ai cattolici e ai cristiani, è sorretto da un’interpretazione della genesi dell’evento ’89. «Il fattore decisivo che ha avviato i cambiamenti (del 1989) è certamente la violazione dei diritti del lavoro» – non è dunque il mercato ma la lotta operaia che ha determinato la crisi del socialismo reale – nella crisi del socialismo reale la Chiesa ha saputo interpretare e rappresentare «le forme spontanee della coscienza (di classe) operaia» e portarle alla lotta per il rinnovamento democratico. Questo incontro diretto ha evitato ambigue alleanze di vertice fra il marxismo e il cristianesimo (qui la «teologia della liberazione» è, di passaggio, nuovamente condannata). Questo incontro è avvenuto alla base e ha avuto «importanza universale»: una volta scomparsa l’alternativa comunista, il tema della liberazione può solo essere interpretato da un movimento operaio cristiano, che riprenda l’ analisi critica dell’alienazione senza cedere al programma marxista della violenza contro lo sfruttamento. È chiaro che, con queste affermazioni, Giovanni Paolo II intende insistere sul fatto che la crisi ideologica del marxismo non elimina la realtà dell’ingiustizia sociale e dell’oppressione di classe; e se lo sfruttamento non è più descrivibile nei termini definiti da Marx (ma nei Paesi del Terzo Mondo la situazione non è ancora quella?), pure l’alienazione persiste. La lotta dunque continua: la Chiesa deve dare senso e direzione alla spontaneità della lotta.

Proponendosi come rappresentante del lavoro, la Chiesa non nega tuttavia la proprietà privata. Ma la proprietà privata non è un diritto assoluto: essa è ordinata e limitata dal principio dell’«universale destinazione dei beni della terra», anche quando questi sono oggetto di appropriazione privata. Va aggiunto che oggi l’appropriazione privata (ossia il principio di proprietà e di libero mercato) diviene sempre meno importante. Il lavoro, infatti, che è principio che legittima l’appropriazione, è sempre più «lavoro per gli altri e con gli altri», lavoro sociale del sapere e della tecnica, cooperazione sempre più ampia e autonoma imprenditorialità che assumono come base produttiva non più solamente la natura e il capitale ma l’uomo stesso, la sua ragione e la sua capacità di cooperazione (Giovanni Paolo II ha forse letto e appreso dai Grundrisse?). Dunque, la proprietà e il mercato sono soggetti a un duplice limite: quello stabilito dal «principio di solidarietà» e, in secondo luogo, quello stabilito dal «principio di sussidiarietà» (dall’affermazione cioè di un processo libero di auto-organizzazione sociale, che deve essere accettato e sostenuto dallo Stato – oh quali trasfigurazioni può subire il corporativismo medievale della Chiesa!). Il movimento associativo dei lavoratori, che incarna unitariamente i due diversi princìpi, deve rappresentare la leva di trasformazione essenziale della società, portandola oltre il capitalismo.

L’ispirazione politica che anima la Centesimus Annus si manifesta infine nell’appello al volontariato e alla militanza. Il circolo del ragionamento pontificio si completa. Se con la ricostruzione di un movimento sociale cristiano, la Chiesa si presenta come l’unico baluardo di giustizia sociale, e come esclusiva figura di rappresentanza e di mediazione della società contro lo Stato, del povero contro il ricco e del lavoratore contro il capitalista, essa pur delega la costruzione pratica di questo programma agli individui e alle associazioni – essa si affida dunque alla carità e alla pietà per farsi virtù operante, militanza soggettiva della moltitudine.

Che dire? È evidente che nel mettere in risalto alcuni elementi dell’Enciclica, abbiamo cercato di evitare le più grossolane contraddizioni che la percorrono (il tentativo di accordare Leone XIII, Pio XI e XII, nonché Giovanni XXIII è pietoso) e le grottesche affermazioni che spesso vi si ritrovano (la più assurda è quella che considera «polemogenetica» in senso imperialista la teoria della lotta di classe). Neppure abbiamo voluto infierire sulle aporie filosofiche, sulle sciocchezze antropologiche e i sapori oppiacei che infarciscono l’Enciclica (l’opposizione al comunismo è, ad esempio, sviluppata sulla base della teoria del «peccato originale»!). Queste cose (contraddizioni, affermazioni grottesche e scempiaggini) appartengono alla fede, noi fortunatamente non la possediamo e ci muoviamo sul terreno del realismo filosofico e politico. È qui tuttavia che l’intelligenza del polacco di Roma ci tocca, e la rapidità e la vivacità con la quale ha reagito agli eventi del 1989 sollevano la nostra invidiosa ammirazione. E un po’ di frastornato sbalordimento. Ma è mai possibile – ci chiediamo – che non vi sia altro candidato che un Papa a risollevare le bandiere dal fango della Waterloo del movimento operaio? È mai possibile che, scontando la sconfitta ma anche i giganteschi processi di ristrutturazione in atto, solo un Papa, meglio di ogni sindacalista, intenda e diffonda il concetto della natura intellettuale e cooperativa della nuova forza lavoro produttiva? È mai possibile che solo un Papa, in un clima di conformismo generalizzato, elevi, pur fra mille cautele, una critica pesante del capitalismo quando nessun socialdemocratico (educato dall’altro, illuministico ’89) ormai più osa lamentarsi dello sfruttamento? E che solo un Papa inciti all’organizzazione alternativa contro l’alienazione e lo sfruttamento? È mai possibile che, per un feroce inselvatichimento dei tempi, uno stregone dica più verità di coloro che si pretendono scienziati?

Verrebbe voglia di concludere, a questo punto: se questa è la miseria dei tempi, affidiamoci allo stregone – non senza promettere alla vigliaccheria dei laici e dei socialdemocratici quella vendetta che la loro irresponsabile impotenza merita. L’onore non ci permette di concludere in quel modo. Ma stiamoci attenti. Dopo cent’anni di solitudine, la dottrina sociale della Chiesa si propone come sola alternativa alla sconfitta del movimento operaio. In maniera mistificata ma non meno efficace. Stiamoci attenti: forse non avremo più la forza di usare il pope Gapon nelle nuove manifestazioni insurrezionali della comunità che viene…

 

 

 

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