Il riformismo impossibile: perché la dismissione dell’università è una strategia pubblica e privata

 

di GIGI ROGGERO

L’ennesimo regalo agli atenei privati di Mariastella Gelmini, a fronte dei ripetuti tagli draconiani alle università pubbliche e con l’ironia di una riforma a costo zero (o sotto zero) temporaneamente bloccata per mancanza di fondi, costituirebbe la prova della privatizzazione del sistema formativo in Italia. La tesi non convince non perché è troppo radicale, ma perché lo è troppo poco. Cominciamo dalla sua traduzione politica: bisogna difendere l’università pubblica così com’è alleandosi con i suoi signorotti feudali, quei rettori questuanti che, poveracci, non riescono a racimolare nemmeno le briciole dal ministero dell’istruzione, o meglio da quello dell’economia. Ma questa, lungi dall’essere la soluzione, costituisce al contrario uno dei problemi principali delle mobilitazioni in Italia negli ultimi anni: pensare che si è tutti sulla stessa barca. Non è affatto così. Su quella barca ci sono gli armatori e i marinai, chi si accorda con il governo e chi rema, chi la sta facendo affondare e chi la fa navigare. Ci sono i padroni e i lavoratori: negli Stati Uniti, dalle lotte alla New York University a quelle in California, hanno capito bene che questo – e non l’illusoria distinzione tra pubblico e privato – è il confine attorno a cui si costruisce il conflitto dentro e contro la corporate university.

Passiamo poi al merito dei recenti omaggi governativi a preti e lobby amiche. É difficile scorgervi le tracce di un disegno strategico che consista nell’investimento esclusivo in “poli d’eccellenza” e “alta formazione”: davvero si può pensare che la produzione delle cosiddette “classi dirigenti” sia affidata all’Università Cattolica o alle cialtronesche retoriche giavazziane? Per rispondere, è sufficiente esaminare le best practice di una vera élite imprenditoriale italiana, cioè la ‘ndrangheta, che per attrezzarsi nella competizione globale manda i propri giovani a studiare nelle migliori business o law school in giro per il mondo. Insomma, i soldi per tenersi buone le clientele possono da un lato ben restituire il clima del bassissimo “impero” berlusconiano, dall’altro confermano il ruolo completamente parassitario delle imprese rispetto alla formazione, ovvero la complicità di pubblico e privato nel disinvestimento. Tuttavia, quei miserabili e odiosi atti di riverenza non vanno confusi con la strategia: l’aziendalizzazione dell’università significa in Italia la sua dismissione, volta – come abbiamo già argomentato più volte – a ricollocare il ruolo della sub-area italiana dentro il mercato globale. Allora, la necessaria indignazione per l’ennesimo affronto del governo deve tradursi in un campo di battaglia politico generale, perché quando parliamo di “modello Marchionne” non ci riferiamo solo ai comportamenti che gli “amministratori delegati” delle università hanno avuto nei confronti delle mobilitazioni di studenti e ricercatori, ma intendiamo esattamente questo livello strategico complessivo.

Proprio perciò i discorsi che, auspicando un’alleanza con il riformismo liberale, insistono sulla necessità di un investimento sull’”economia della conoscenza” per uscire dalla crisi sono fuorvianti. Non solo perché la cosiddetta opposizione non ha idee diverse sull’università, o meglio non ha idee – confrontare gli emendamenti al Ddl Gelmini con il testo originario assomiglia al gioco delle dieci differenze della “settimana enigmistica”, e non è detto che siano migliorative, anzi… Il punto è che la dismissione dell’università non contraddice ma è completamente interna all’”economia della conoscenza”, cioè alle forme di gerarchizzazione e segmentazione del capitalismo contemporaneo. Per mettere in discussione il singolo pezzo bisogna mettere in discussione l’intero: non c’è altra via. A meno che non si voglia scimmiottare i think tank del capitale nel prospettare fantasiose uscite da una crisi permanente – cosa che, tra l’altro, è innanzitutto un loro problema.

Per dirla in altri termini, la lotta contro i tagli all’università per vincere deve generalizzarsi dentro l’intera composizione di classe, oppure non ha possibilità. Sono queste le lezioni che, innanzitutto, ci vengono da Londra e dalla Francia. All’opposto, le mobilitazioni dei ricercatori italiani si sono arenate proprio su questo scoglio: laddove si trattava di agire come lavoratori, allargando quindi il piano del conflitto socializzandolo “orizzontalmente”, hanno invece pensato che la loro salvezza fosse nell’alleanza con i baroni, rafforzando così il nesso di subordinazione “verticale”. Contro il modello Marchionne o ci si allea con gli operai, oppure vincono Gelmini e i feudatari aziendali. Dunque, partendo dalle lotte e dai movimenti trascorsi (assumendo ad esempio sedimentazione soggettiva e punti di blocco di quella che fu l’Onda, anziché invocare inutilmente il ritorno dell’identico), è necessario costruire elementi di programma politico nella crisi.

In primo luogo, la questione dell’accesso: a differenza di quello che sostengono i sindacati studenteschi italiani – a cui si è finora probabilmente lasciato troppo spazio, quantomeno nella rappresentazione mediatica delle mobilitazioni – è una questione di libertà e di autonomia del lavoro vivo. L’aumento delle tasse, l’altra faccia dei tagli, non spinge gli studenti fuori dall’università, ma li accompagna dentro strangolandoli con il debito e ricattandoli nella subordinazione. Non aumenta cioè l’esclusione, ma gerarchizza ulteriormente l’inclusione: l’idea dell’università come ascensore per la mobilità sociale è finita per sempre, precarietà e declassamento diventano condizione permanente. Non si tratta quindi di una battaglia per il diritto allo studio in termini classici, ma di un conflitto sui dispositivi di gerarchizzazione del sapere e sulla sua produzione. O, per dirla altrimenti, la lotta sui saperi è una lotta contro la precarietà e lo sfruttamento.

Da questo punto di vista – secondo elemento – il problema non è appellarsi alla difesa del pubblico contro l’intrusione dei privati, perché si tratta di due facce della stessa medaglia, cioè dell’aziendalizzazione dell’università. La posta in palio è decisamente più alta: la costruzione di una nuova università, ciò che abbiamo chiamato istituzioni del comune. É su questa prospettiva di immediato esercizio collettivo dell’autonomia che vanno misurate questioni come la valutazione e la crisi delle discipline, campi di battaglia imprescindibili fino ad ora rimasti sullo sfondo della critica (assolutamente corretta, ovvio, ma nelle forme per il momento inefficace) alla meritocrazia. Le stesse pratiche di autoformazione come sono state concepite negli anni passati sono oggi insufficienti perché troppo poco ambiziose: vanno ripensate ponendo il problema dell’autorganizzazione e dunque reinvenzione collettiva dei programmi didattici, della ricerca e dei dipartimenti.

Riappropriarsi delle istituzioni esistenti per trasformarle in istituzioni del comune significa, last but not least, costruire nuovo welfare. Ad esempio, iniziando a rivendicare il diritto alla bancarotta per i precari e i lavoratori che sono ricorsi al debito e ai mutui per garantirsi l’accesso a bisogni sociali conquistati e incomprimibili (casa, saperi, formazione, mobilità e via di questo passo). La lotta contro i tagli, allora, vuol dire riappropriazione della ricchezza sociale da parte di chi la produce e per la propria autonomia.

In questa direzione, si tratta di ripensare il discorso politico e le pratiche organizzative, e di farlo su un piano europeo e transnazionale (si è poco o per nulla valutato, tra gli elementi di esaurimento dell’Onda, la sua chiusura nello spazio nazionale). Una volta si diceva, come allusione: convocare gli stati generali del sapere. Oggi dobbiamo ricominciare da lì, da una costituente dell’università per trasformare quell’intuizione sul nuovo terreno conquistato dalle lotte nell’approfondirsi della crisi. É in questa prospettiva che va agita la lotta contro e oltre il Ddl Gelmini.

 

 

 

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