Gli stati generali della conoscenza

 

di BENEDETTO VECCHI

Un percorso che metta in relazione ricercatori, docenti, artisti e la generazione che rifiuta il progetto di Mariastella Gelmini che vuole trasformare l’università in una agenzia di formazione per presenti e futuri precari. Ma che tessa rapporti con i «lavoratori della conoscenza». Insomma, un percorso che porti nei prossimi mesi alla convocazione degli «Stati generali della conoscenza». Questo giornale si mette a disposizione di tale percorso. Raccontando quanto accade e offrendo il sito web per ospitare i materiali che saranno. È ormai evidente che il disegno di legge sull’università ha incontrato una diffusa opposizione da parte di ricercatori, studenti e un numero significativo di docenti a fronte di un interessato consenso raccolto solo tra rettori (non tutti), Confindustria e le teste d’uovo dell’ideologia neoliberista. E sono stati proprio i ricercatori, gli studenti che hanno reso la sua approvazione alla Camera un percorso tanto accidentato quanto esposto al ridicolo. Le mobilitazioni, i flash mob, i cortei sono inoltre riusciti nel miracolo di distogliere l’attenzione dell’opposizione parlamentare dalle alchemiche formule politiche sul dopo Berlusconi, la cui uscita di scena è stata annunciata da almeno due anni, ma poi sempre rinviata a tempi migliori. Subito dopo l’approvazione alla camera del suo disegno di legge, Mariastella Gelmini è andata in televisione per gridare alla vittoria, certa che il passaggio al senato fosse solo una formalità. Una sicurezza durata il tempo di una notte.

Il giorno dopo il voto alla Camera, infatti, l’elenco delle occupazioni e delle azioni degli studenti riempivano più di una schermata del computer, mentre gran parte dei giornali continuava a recitare il de profundis per il governo Berlusconi la cui uscita di scena dovrebbe avvenire, dicono i bookmaker, il 14 dicembre, giorno in cui si voteranno le mozioni di sfiducia. Nel frattempo, però, le azioni mordi e fuggi del movimento hanno scandito una agenda politica dove quella giornata è considerata l’appuntamento da non mancare per far ritirare definitavamente il disegno di legge sull’università. Il tam tam che di nodo in nodo si sta diffondendo nella Rete è di trasformare quella giornata in un nuovo blocco delle città, a partire da Roma dove è anche prevista una manifestazione nazionale convocata da «Uniti contro la crisi».

Al di là di quanto avverrà il 14 dicembre dentro e fuori le aule parlamentari, occorre soffermarsi su un aspetto che ha caratterizzate le scorse settimane, cioè la convergenza delle mobilitazioni sull’università con quelle che hanno caratterizzato il variegato mondo della cultura. Il nodo è come non rendere episodico questo rapporto, cioè di come trasformare la presa di parola in un compiuto e non contigente atto politico. Per questo ci sono tutte le condizioni per una grande iniziativa che metta in rapporto l’università alla produzione culturale che avviene fuori dagli atenei. Una sorta di «stati generali della conoscenza» che veda protagonisti oltre gli studenti, i ricercatori, gli artisti anche il proteiforme arcipelago dei «lavoratori della conoscenza» che hanno come mezzo di produzione principale il sapere. Un’ipotesi già emersa due anni fa durante le manifestazioni dell’Onda e che può essere riproposta ora, cioè quando la crisi del governo di centrodestra ha raggiunto il suo acme e il movimento nelle università, in difesa della ricerca e del mondo della cultura ha avuto la capacità di costruire un vasto se non maggioritario consenso nel nostro paese. Va inoltre sottolineato che dentro il movimento di ricercatori e studenti è abbastanza diffusa la consapevolezza che la soluzione dei problemi dell’università non coincide con la mancata approvazione di un progetto di legge, né con la difesa di un’istituzione dove la convergenza di rapporti gerarchici feudali e una logica aziendale ha quasi distrutto quel bene comune che è la conoscenza sans phrase, esisto di relazioni, passioni, bisogni ricondotti da almeno tre lustri al velenoso calcolo dei crediti formativi.

È per questo motivo che l’articolo apparso il 6 Dicembre su «La Repubblica» di un attento lettore delle dinamiche della società italiana come Ilvio Diamanti lascia interdetti. Presentando un’inchiesta sulla percezione che studenti e non hanno dell’università, Ilvio Diamanti afferma che all’origine della rivolta di questo tardo autunno altro non ci sia che un diffuso risentimento, parola magica che da qualche tempo è usata come chiave di accesso alla comprensione dei «mali della società italiana» assieme al suo fratello gemello, il rancore. Dietro le mobilitazioni dei ricercatori, studenti e docenti è tuttavia difficile scorgere queste passioni tristi. Il risentimento, come anche il rancore, è però la reazione rabbiosa e scomposta a una perdita di status provocata da chi occupa posizioni sociali contigue, ma comunque superiori e che è tuttavia sono indirizzati verso i propri simili socialmente e verso chi è collocato in basso delle gerachie sociali. Oppure sono alimentati dalla frustrazione che le proprie aspettative di promozione sociale non trovano soddisfazione dopo che sono entrate in rotta di collisione con i vincoli imposti dai rapporti sociali dominanti. Sono cioè due manifestazioni di quell’«antagonismo degli imbecilli» a cui il populismo si abbevera, incentivandoli, ma che nulla hanno a che fare con quanto si è visto in questi mesi dentro e fuori le aule universitarie.

Il movimento che si è manifesto negli atenei è infatti espressione, all’opposto del risentimento e del rancore, della volontà di trasformare profondamente le università in nome di una conoscenza, considerata illuministicamente un forte antidoto al darwinismo sociale che caratterizza il capitalismo contemporaneo. Da questo punto di vista la proposta di riforma dal basso dell’università resa pubblica ieri va considerata come esemplificazione del potere costituente di questo movimento. Inoltre, l’importanza dell’iniziativa risiende nel fatto che può indicare una controtendenza alla riduzione drastica dei finanziamenti all’università pubblica unita a un sostanzioso spostamento di risorse verso quelle private che sta provocando una desertificazione degli atenei italiani, dando così colpo di grazia a quel delicato e tuttavia potente dispositivo che regola la produzione e la condivisione della conoscenza. Senza il riconoscimento del tessuto relazionale, della circolarità delle idee e di un nuovo rapporto tra docenti, ricercatori e studenti dove ognuno apprende saperi codificati e informali di cui ignorava l’esistenza non si danno infatti le condizioni necessarie alla trasformazione dell’università e della produzione culturale. E tuttavia quella produzione e condivisione della conoscenza può essere considerata un elemento costitutivo della costituzione materiale dei «lavoratori della conoscenza». In altre parole, la parola d’ordine di riprendersi il futuro, cioè il filo rosso che ha unito le mobilitazione dentro e fuori le università, pone il problema di trasformare il presente.

Ed è in questo contesto che è appunto avvenuto l’incontro tra l’università e il variegato mondo della cultura, entrambi colpiti dalle politiche di dismissione messe in campo dal governo. Gli «stati generali della conoscenza» sono quindi da considerare il momento costitutivo di un movimento che accetta di misurarsi non solo con la trasformazione dell’università, ma con l’insieme della produzione culturale. E tuttavia è una proposta tutta da articolare. Questo giornale si mette quindi a disposizione affinché punti di vista, analisi, riflessioni possano trovare il luogo e il contesto in cui confrontarsi. Per questo, il momento migliore per dare avvio al lavoro costituente degli stati generali della conoscenza è proprio il 14 dicembre, quando l’indisponibilità a questo disegno di legge e alle politiche sociali e economiche di questo governo tornerà nuovamente a manifestarsi nelle città italiane.

* da Il manifesto del 10 Dicembre 2010

 

 

 

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